Con tutte quelle cose.

marzo 26, 2012

Lei uscì di casa urlando un vaffanculo che rimbombando nel pianerottolo uscì dal tetto. Lui era in salotto che susurrando bestemmie cercava di non calpestare tutti i libri e i dischi come fossero bombe sparse sul pavimento. Un attimo dopo era ancora lì, le labbra coperte di sangue.
A lui piacevano un sacco le pile di libri e dischi, fintanto che non si mischiavano. Gli piacevano un sacco tutte quelle cose così unite e compresse, gli piaceva la spontaneità con cui il suo di lui e il suo di lei diventavano il loro. Ha sempre pensato che quelle pile di cose fossero le colonne portanti della loro relazione e che se fossero crollate sarebbero crollati anche loro. Un amore architettonico basato sugli interessi, soprattutto non comuni, che nelle relazioni basate sugli interessi comuni lui non ci ha mai creduto; non ne sopportava l’idea. Non sopportava l’idea di vedere una persona chiudersi nei propri gusti ed aprire la porta solo a chi li avesse accettati, quei lenti treni diretti sempre nello stesso posto che accolgono sempre gli stessi pendolari annoiati. Lui ha sempre pensato che prendere treni diversi e opposti fosse necessario per una buona convivenza, che a star sempre sullo stesso treno dopo un po’ ci si spara in testa. Quindi lei andava alle partite mentre lui andava ai concerti punk e tornati a casa facevano l’amore, circondati da pile di cose, mai sconfitti nella loro diversità.
Un’ora dopo era ancora lì.
Lei tutto questo lo dava un po’ per scontato. Non che l’importanza non fosse la stessa, ma non sentiva il bisogno di sottolinearlo, non pensava che le cose dette più di una volta avessero più significato, anzi, secondo lei a furia di rimarcarle le cose perdono pezzi, e senso. Nelle relazioni basate sui ti amo quattro volte al giorno lei non ci ha mai creduto; non ne sopportava l’idea. Non sopportava l’idea di vedere quel già esile concetto andare ulteriormente a pezzi, e se poteva darlo per scontato allora poteva crederci e credere nello scontato per lei era fondamentale per una convivenza sensata e priva di pressioni. Questo voleva e questo aveva per la maggior parte del tempo, con lui, che ogni tanto le cose le rimarcava ma lo faceva nei momenti giusti, e a lei solitamente andava bene.
Un’ora, venti minuti e quaranta secondi dopo lui era ancora lì.
Fermo sul pavimento che non era mai stato così incasinato, steso con il viso tra il suo primo disco di Nick Cave e un libro che gli piacque poco, Cosmopolis, ma a cui teneva perché comprato con lei un pomeriggio, poco minuti dopo che, sempre lei, gli disse che il suo regista preferito ne avrebbe tratto un film. Fermo, steso, pensava che quel libro lo avevano letto entrambi in due sere, a letto, condividendo la stessa idea su quel finale, brutto, buttato lì e privo di senso. Era una delle poche cose di entrambi, forse l’unica, mai stata di lui e mai stata di lei, solo di loro, e ora non sapeva che farne. Le cose sue di lei se le era già portate via quell’ora e trenta minuti scarsi prima; erano un sacco di cose e lui ancora non si capacitava di come avesse fatto a farle stare tutte in quel borsone e a farlo in così poco tempo, come se lo avesse saputo prima. Decise di lasciare il libro in mezzo alla stanza mentre rimetteva a posto tutto il resto nelle pile di cose sue, di lui.
Lei tre ore prima era tornata a casa da lavoro senza un briciolo di felicità in corpo. Era stanca e insoddisfatta e quella casa gli faceva venire da vomitare, avrebbe volentieri cambiato aria, vestiti, capelli; avrebbe volientieri fatto il giro del mondo per qualche mese con due valige e quattro cose e lo avrebbe fatto con lui e lui lo sapeva bene. Non possiamo andare via era quel che le diceva sempre. Non possiamo andare via e non ce lo possiamo permettere. Un po’ aveva ragione, ma lei sapeva anche che lui non sarebbe mai andato via perché a lui quelle pile di cose piacevano così tanto che non aveva il coraggio di lasciarle lì, lasciarle alla madre, lasciarle a chissà chi. Che se c’era da partire quelle cose dovevano restare indietro e lui non poteva farlo.
Lei si stava spogliando quando per sbaglio scontrò una pila di dischi facendoli rovinare per terra in un fracasso tale che sembrava avessero deciso di suonare tutti insieme. Lui entrò in salotto chiedendole cosa cazzo stesse combinando e di stare più attenta, che i dischi si rompono, e allora lei prese le altre pile di cose e buttò tutto a terra. I dischi tutti a terra; i libri, tutti a terra. Prese un borsone ed iniziò a riempirlo, il volto coperto mascara colato, andando a tastoni sul pavimento e schiacciando tutto quel che aveva davanti. Prese Cosmopolis, lo guardò un attimo facendo una smorfia e glielo scagliò addosso così forte che gli colpì un labbro, spaccandoglielo. Lui un attimo prima era fermo e immobile, il volto coperto di lacrime e incredulità.
Poi il vaffanculo.
Nel spostare cose sporcò tutto di sangue e lacrime e più metteva a posto più si rendeva conto dello spazio che gli era rimasto e di come mai nella vita sarebbe riuscito a riempirlo, da solo. Si girò verso quell’unico libro in mezzo alla stanza, non riusciva a credere a quanto spazio potesse occupare un libro così piccolo se messo nel posto giusto. Rimase lì a guardarlo, fermo e immobile, con il sangue che lentamente gocciolava sul pavimento, cercando una spiegazione per quel brutto finale; il loro.

2 Risposte to “Con tutte quelle cose.”

  1. […] tempo. Parla di cose, di ricordi, di scatole; racconta una storia che abbiamo raccontanto tutti, anche io, anche il mio amico più lontano, nello spazio. Sicuramente anche altri. Objects In Space è […]

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